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CESARE ANGELINI

GIOVANNI PAPINI

In C. Angelini, Vivere coi poeti,
Milano, Fabbri Editori Editori, 1956, pp. 66-69.

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Giovanni Papini con un suo autografo, «Chi non ha mai sognato d’esser / più che uomo è men che bestia / Giovanni Papini»


L’articolo che più faceva vendere e leggere La Voce era quello di Papini. E non penso ora all’articolo scandaloso contro i morti, i genitori e il genio. Questi, se mai, glie li perdonavamo per amore degli altri dov’era un gusto fantastico e sodo del vocabolo e annunziavano il nascimento di quel nuovo tempo letterario che fu detto il tempo della Voce; e par sempre di ricordare un tempo di primavera o un’avventura a cui s’è donata tutta la persuasione e il cuore.
I giovani d’oggi non possono sapere appieno cos’è stato quel fresco movimento per noi che eravamo ancora un po’ giovani tra il 1912 e il ’15: quando Papini, trentenne o poco più, viveva il suo momento splendente: e se una sua presentazione era una consacrazione, la sua firma su una cartolina ci pareva valesse quanto un’immagine sacra. Era una generazione che aveva ancora passione, entusiasmo, commozione; e sapeva d’altra parte fare i suoi esami di coscienza e giudicare un uomo nel suo bene e nel suo male con molta indipendenza spirituale. C’era ancora Serra con noi, e Boine e Slataper: tre penne, tre temperamenti. C’era Soffici, col suo dono visivo e le sue ore e stagioni e paesi. C’era Jahier con le sue pagine di sintassi nervosa, faticata come il passo dell’alpino che vince la montagna. Cecchi, critico della Tribuna, lasciava già intravedere ai più attenti l’artista di Pesci Rossi. Ungaretti, uomo di pena, minava il vecchio terreno coi versicoli esplosivi dell’Allegria. Cardarelli poneva problemi di poesia in pagine esatte e discorsive, fantastiche. Facevano le loro prime prove, ma già parevano perfetti, Baldini e Linati nella «lirica in prosa», e De Robertis nella critica pura, con la responsabilità di dirigere la rivista ricevuta da Prezzolini; che voleva dire aiutare il risolversi della poesia in un momento decisivo, tutto germogliante e scattante d’una sua carica lirica. E il quadro forse appare completo se, tra quel correre di vive linfe, mettete anche il nome di Rebora e l’azione dei suoi Frammenti sostanziosi e scontrosi. Dicevo momento decisivo; e mi piacque averlo vissuto a Cesena, in Romagna, dove in quegli anni s’accoglieva forse il meglio della nostra poesia: Pascoli moriva proprio allora (aprile del ’12) e Panzini cresceva in sapienza e nella simpatia dei giovani. È pur li che, per i buoni uffici di Serra, è nata qualche mia conoscenza e corrispondenza con la società letteraria. Potebb’essere divertente mettere le mani su quelle lontane lettere che il tempo ha sbiadito; di Papini, per esempio, quant’era sollecito e sollecitante anche con gli amici minori e minimi. («Ma lei dovrebbe sentire di più l’amicizia, e non abbandonare il povero e bravo De Robertis che per avere un articolo suo...») Erano gli aspetti nativi e umanissimi di un uomo di cuore. Papini — Serra — De Robertis: una delle amicizie più belle e fruttuose di quel primo Novecento, e più d’una cosa bella, se l’abbiamo, la dobbiamo a quell’amicizia. Papini si impegnava e ci impegnava; non è colpa sua se non abbiamo saputo rispondere di più.
Sua era invece molta polemica, necessaria forse a liberare il suo temperamento carico di retorica, e a chiarire la impostazione di molti problemi ch’egli ha sempre sollecitato e amato. Dicono che fin da ragazzo Papini era pallido del pallore di chi sogna continuamente giorni di gloria, di chi non dorme per inventare nuove speranze, per trovare nuovi spazi e nuove conquiste al suo discorso. E Papini ne ha mosse di idee, ne ha aiutati — e spesso contaminati — di problemi. Più dei quali però ci interessava la sua natura che era di lirico. Certi capitoli dell’Uomo finito erano come ebbre fanfare di vento sui colli di Firenze; e 100 pagine di poesia e Giorni di festa ne aumentavano la testimonianza, rappresentando la felicità dei giorni innocenti, delle ore regalate, anche se poi dovevamo scontarle con altre cose ingrate della sua rumorosa figura. Natura d’impeto, s’alzò contro D’Annunzio, che in quegli anni era in Francia, e parve volergli insegnare a scrivere. S’alzò contro Croce per insegnargli come si pensa e ragiona. Ingenuità, imprudenze, che accompagnano sempre i giovani precoci, e risultano estremamente controproducenti quando i giorni tornano calmi. Perché, alla fine, ci sono tanti modi di pensare e di scrivere; e D’Annunzio era ben altra cosa dal suo stesso dannunzianismo, e Croce del crocianesimo, che ancora ci affliggevano.
Ma dalla sua precocità scalpitante, Papini ha sempre camminato con passi forti, volanti, verso molti interessi: filologia, eresia, coltura, religione, politica, lasciando credere che lo interessassero molto, lavorando a getto caparbio, con idee capovolte, con immaginazione impennata, spesso con anelante splendore, da far pensare alla toscanità carducciana, liberata dai residui parassitari della aulicità. Certo la parola di Papini si dorava alla miglior tradizione toscana, risentita con un gusto nuovo; il gusto di chi, libero dal peso del classicismo, sentiva lo scrivere come una nuova dolcezza del vivere.
Questo avrebbe dovuto tenerlo raccolto sul suo raro dono, nella su «porzione di felicità». Ma Papini la sciupava con le sue mani, cercando con turbolente vociferazioni il facile successo, esibendosi in prove di bravura, in facinorose voglie di titanismo; come se portasse in sé qualcosa di certi torbidi dèi mitologici, che non riusciva a placare. E forse una volta sognò davvero di essere un dio in esilio: era l’audacia e il residuo negativo dell’Uomo finito che, s’è già detto, ha pagine di solida poesia, com’era il fiore della sua cultura e della sua anima giovanile, rinascente in incantamenti e sorprese.
Serra, che ne aveva stima, nelle Lettere gli rimproverò un cotal vezzo di amplificazione. Accusa temibile, particolarmente in tempi quintessenziali, concentrati. Ma l’amplificazione in Papini non è sempre un fatto retorico; spesso è veemenza di dire tutto quello che si può dire intorno a un tema: è accensione, aggiunzione, scoperta, corrente libertà. Le sue amplificazioni sono come le fughe in certe musiche grandi che, quando paiono finite, ricominciano da capo, a tema e tempo capovolti, estrose e rifiorenti, capricciose e vincenti.
Insomma, è da questo ben chiaro e lirico e papiniano gusto della parola che si è partiti nel ’12, ’13 e ’14 per fondare un nuovo tempo poetico, per calare tutto il sentimento nel linguaggio e farne una identificazione perfetta. Ora, se è vero che quando si vuol rivedere il movimento della Voce, bisogna fare i conti con Papini che par lo domini tutto con la sua persona grande e rappresentativa, non è meno vero che al suo nome e particolarmente a Opera prima dovremo tornare quando si rifarà onestamente e fuori dei puntigliosi personalismi la storia della poesia nuova. Ne è un bell’esempio l’Antologia recente curata da Anceschi e Antonielli, dove Papini è presente col suo peso decisivo nell’innovazione poetica del Novecento. Opera prima, poesia in versi, è un esempio del suo gusto, della sua esperienza lirica, consegnato ai giovani del 1917. Quanto ci sia derivato da Alcione, non so. Forse il ricordo di Alcione vi ondeggia dentro come l’aroma della luna sui boschi. Ma so che, fin dal titolo, Opera prima è libro pieno di anticipi; e per solidità fantastica, rallegrature di colore, tessitura di immagini, inventiva verbale, può ancora essere utile lettura e lezione a tanti volenterosi apprendisti.


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  Vedi anche Giovanni Papini in Assisi ai Corsi della Pro Civitate Christiana