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CESARE ANGELINI

I GIORNI DI RENATO SERRA

In C. Angelini, Il piacere della memoria,
Milano, All’Insegna del Pesce d’Oro,
1977, pp. 37-47.

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Renato Serra in età giovanile


Fosse vivo, sarebbe alla vigilia dei novant’anni. Ma era destino che di lui ci restasse per sempre l’immagine del giovane, e fu fermato dal tempo dalla morte in guerra, il 20 luglio 1915, a 31 anni.
L’Epistolario che ci rimane nell’edizione lemonnieriana del ’34, ridà tuttavia attualità quasi di cronaca ai suoi giorni, specialmente per chi, negli ultimi anni, gli è vissuto vicino.
Le prime lettere sono del 1900, quando il Serra appena sedicenne va a Bologna a fare l’università col Carducci e altri maestri famosi, il Gandino, Severino Ferrari e l’Acri. Dal 1900 al 1905 — il tempo bolognese — l’Epistolario è un colloquio a tre: lui, la Mamma e Luigi Ambrosini. Dell’affetto per la Mamma ci rimangono espressioni commoventi: «Mi par sempre d’essere ancora a casa, che per le piccole e grandi cose sono avvezzo a chiamar sempre la mia Mamma». Luigi Ambrosini è l’interlocutore ininterrotto, l’amico del cuore: «Il fatto sta che io ti voglio bene come a un fratello». In lui riversa le confidenze, le incertezze, gli umori diversi, le pigrizie e i danni, e i rinascenti propositi di lavoro. E perché ne conosce le domestichezze con le lettere, gli offre tutto il suo bellissimo ingegno, gli indica via via le scoperte bellezze del pensiero e dell’arte, i fondamenti dell’esperienza letteraria, che in lui paiono doni. Vede nell’amico quello che dice di non trovare né troverà mai in sé «inetto al lavoro e alla vita». Si scambiano i primi lavori in versi, come usava allora, che scrivere in versi era un segno di distinzione letteraria. Lui gli manda sonetti su alcune figure vagheggiate, leggendo Omero (Achille, Elena...): «Ti mando rime debolette in cambio d’una tua alcaica, tutta bella e viva e sonante». Gli fa proposte di lavoro, ne loda i risultati: «Tu hai ingegno più felice del mio... Batti e batti e sarai qualcuno. I critici dovranno riconoscere in te una voce nuova, il nuovo poeta». Si può sorriderne oggi, trattandosi non più che di prove di stile di due amici singolari nello splendore dei vent’anni.
Il periodo bolognese chiude con la laurea sui Trionfi del Petrarca (malinconia di non poterla prendere dal Carducci andato in pensione) e una confessione che è un esame di coscienza che s’è creato dentro tutto un mondo ideale e fantastico, grande e vario e tutto suo. «Qualche anno fa mi accorgevo a volte con dolore che la mia mente era un magazzino di idee altrui; ora l’ingombro della infinita roba ingoiata da ragazzo è digerito e spazzato via, e i problemi della filosofia e dell’arte non son più parole e idee altrui ma cose vive che io scelgo, bene o male, a modo mio». Parole tanto più mature della sua età.

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Il quinquennio 1905-1909 è quello d’una vita movimentata: il servizio militare a Roma nel 47° fanteria, l’anno di magistero a Firenze, richiami alle armi per le grandi manovre, occasioni di insegnamento in qualche scuola Normale. Ma continua il colloquio a tre, con poche altre aperture; con Lovarini, il suo professore di Liceo, con Plinio Carli, con Grilli. Ambrosini è sempre l’oggetto delle sue attenzioni: «Tu sai che io sono, in fondo al cuore, tuo, una cosa tua». Continuano i ritratti ch’egli traccia di sé «un pover’uomo inetto al lavoro dell’arte e della vita» e le celebrazioni dell’amico e delle pagine che va scrivendo sui giornali. Lo invita a Cesena da dove saliranno in bicicletta alla sua casa di campagna a San Tommaso in collina tutta festante d’allegria delle ciliegie mature. I giorni, le letture, le tristezze familiari, la natura contemplativa ne hanno ingagliardita l’anima e cresciuta la voglia di prodigarsi: gaudet profundens. Anche i temi (o sfoghi) della conversazione si ampliano: la preoccupazione di guadagnarsi da vivere e non esser di peso alla famiglia; la passionaccia da cui non riesce a liberarsi e si va a sfogare al tavolo da gioco; l’altra malinconia, la donna e l’amore di lei che egli (dice) non potrà mai avere; il senso della vita che fugge, delle stagioni che muoiono e non ritornano più: «Come son brevi i giorni dei vent’anni!». E le lettere acquistano un pathos che è commozione e bellezza sempre più alta, più franca, culminante: «Penso al sonno che scenderà stanotte sotto la mia tenda, e alla menta selvaggia che odorerà al lume della luna». Vorremmo trovare in esse alcuni segni o imprestiti della scuola che ha fatto, dei maestri che ha avuto, degli autori che ha letto «e si sente pieno di loro». Nulla; c’è già un sapore di suo, un suo linguaggio personale e fermo sulle pagine pulite, schiette, e già perfette, d’una perfezione che è, alla fine, sapienza di vita.
Nel 1909, per i buoni uffici di Nazzareno Trovanelli il notabile della città, Serra è nominato bibliotecario della Malatestiana: un approdo desiderato, una conferma del suo destino di restare un lettore di provincia, lontano dalle sollecitazioni e dalla pubblicità. «Ora la biblioteca di Cesena per me vuol dire casa mia, quiete, liberazione da ogni pensiero meccanico (concorsi, titoli, stampare, brigare)». Comincia il tempo d’un più concreto lavoro, i giorni che più contano: «Sto dietro al Pascoli...»; che uscirà nel ’09 a puntate, sulla Romagna, dove usciranno anche un Severino Ferrari, un Alfredo Panzini, gente della sua terra, roba di casa sua. I bei giorni della Romagna, che di recente Claudio Marabini descrisse affettuosamente, continuando quella umanità romagnola.
S’allarga la cerchia della corrispondenza: Prezzolini, Croce, Papini, Panzini, Carlini; nomi luminosi della nostra cultura e delle lettere. A Prezzolini, finissimo ascoltatore di voci nuove, che lo invita a collaborare alla Voce, risponde: «Io sono un povero umanista, e a lei non deve importar molto che sono e che penso». Però manda: La Fattura, l’Acri, L’amore in Carducci, che rimarranno le gemme della Voce di Prezzolini. Croce, che lo visita a Cesena, lo invita alla Critica. S’infittisce la corrispondenza col Carlini, col quale e sotto la protezione di Croce si mette a curare i testi di filosofia: Aristotele, Kant, luoghi di Platone. Preparava pagine, manda, ma ritira il suo nome; sotto il lavoro compaia solo quello dell’amico.

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Nel ’10 ece il volumetto vociano degli Scritti critici con quel Pascoli, e Beltramelli, Carducci e Croce; che, per la qualità della scrittura, la finezza dei giudizi, fa del Serra uno dei critici nuovi più stimati, insieme con Cecchi e con Borgese, la triade famosa di quei giorni, quando pareva che la critica fosse la protagonista delle lettere, tra tanti pascoliani o d’annunziani.
Ora noi abbiamo anche una ragione privata per tenerlo d’occhio; poiché alla fine del ’10 una occasione ci portò a Cesena, a vivergli vicino, con discrezione, portando via con gli occhi e con la mente impressioni, giudizi, suggerimenti, per non dimenticare nulla della sua persona e la sua maniera di leggere i poeti. Leggere, è una parola sua, una cosa sua. E potremmo descrivere così bene i suoi giorni nello studiolo addossato alla biblioteca, con la finestra aperta sul cortile alberato e su molto cielo, al quale interrompendo la pagina, s’affacciava per un bisogno di notare l’ora del tempo, la luce, le cose che erano la sua vita.
Aveva scritto: «Io non voglio fare il letterato di provincia...» Lo diventò, invece, inevitabilmente. Per gli uomini del comune commemora Pascoli, celebra il Carducci al Teatro comunale, stende annunci per la morte di cittadini illustri, Gaspare Finali, Trovanelli; o manifesti per ricorrenze cittadine, firmati dal sindaco. Per lui, così schivo, era il suo modo di parlare alla città.
Alla Voce «gialla» di Prezzolini manda quel Ringraziamento per una ballata di Paul Fort che è divagazione, poesia più alta di quella che presenta, manifesto d’una critica nuova, quasi mistica: «I poeti, io sono nato per amarli». Per il Fra Michelino del Carlini scrive una prefazione che farà sempre piacere il frate e il libro. La passeggiata sui colli intorno, è la celebrazione della Romagna, è il sentimento della storia e delle cose che non mutano, è l’ansia di intendere le cose più profonde dell’uomo e della vita.
Nel ’14 esce il volumetto Lettere d’oggi, cioè «Le lettere nella Italia d’oggi (1913), e dunque delle cose che si sono stampate e che si vanno leggendo tuttavia, e della gente che ne scrive, in questo scorcio di tempo». Sulla Riviera Ligure Boine ne parlò con cattivo umore, come di una conversazione da salotto elegante, negando al Serra ogni vera facoltà critica. All’Aragno lo dissero un complimento fatto agli uomini della Voce, Papini, Soffici, Jahier... e una malevolenza verso altri, verso Cecchi specialmente. Al quale il Serra riconosceva la stoffa autentica del critico in quella sua ansiosa passione dell’intendere, ma rimprovera quella sua scrittura (allora) lutulenta e acerba. Sulla Voce del settembre, Prezzolini ne notò i pregi d’una maggiore incisività sugli scritti precedenti: «Certi giudizi sono capitali e resteranno». Pensava ai ritratti così fermi di D’Annunzio e di Croce, e a quelli nuovissimi di Soffici, di Gozzano, di Di Giacomo.
Pure nel ’14 comincia la corrispondenza col De Robertis. I principî non furono facili, dato il temperamento e la sua formazione cecchiana. (E tutta la Voce bianca gli parrà un’espressione troppo violenta messa al confronto con la sua educazione umanistica.) Ma del De Robertis egli stimava molto l’ingegno critico, per lasciar cadere l’occasione del discorso. E, inverosimilmente prodigo, con lui continuano i doni di pagine che s’era dimenticato di scrivere all’Ambrosini. Nel ’15 Prezzolini cede la direzione della Voce a De Robertis. Il quale da Firenze sollecita, insiste, ne conosce il debole, si dà per ammalato: «La Voce non esce se non mi mandi le pagine promesse». Sensibile al fatto umano, Serra (già in divisa militare e convalescente di una grave ferita per ribaltamento da un camion) promette e manda.
Con De Robertis, che ne è degno, continua quel bisogno di confessarsi per liberarsi di tutto: ricordi, dubbi, simpatie, antipatie, inquietudini e soddisfazioni. Continua quel bisogno di limitare le cose sue, sé stesso, per incoraggiare l’amico. «Per me, scrivere una lettera, è un divertimento...» E scrivere la lettera, gli scioglie la mano a scriverne dieci, venti; e paion tutte capitoli di un’estetica sugli inquieti problemi della nuova poesia; «saper leggere... come va inteso il frammentismo...». Da metter vicino ad altre sue pagine scritte un po’ prima: Del modo di leggere i greci.
La corrispondenza con De Robertis, è un episodio che vuole lungo discorso; ombrata, a farla più umana, da una gran passione in vista, che era sua e di tutti: la guerra. Anche l’Esame di coscienza è, alla fine, una più lunga lettera di questo episodio.
Così, fino agli ultimi giorni, quando dalla trincea del Podgora, dove, non ancora guarito, era tornato per far compagnia ai suoi romagnoli, saluta i parenti, gli amici, con accenti di speranza, d’augurio, perché Serra non voleva morire ma vivere, sentendosene degno. Così, fino all’ultimo giorno: «Oggi bisogna che io vada, e quello che non ho detto o fatto, che resti indietro!»
E quello che è «restato indietro» di questo critico-artista che ha continuato a dar poesia, solo Dio lo sa.
Ma noi sappiamo quello che ci ha dato. Da cinquant’anni, i migliori scrivono di lui e pare sempre il principio, imperfetto, di quello che si dovrebbe dire del suo dono, della sua umanità, della sua perfezione. Di quei bei giorni. Il cui ricordo torna ammonitore in questo tempo in cui gli stessi letterati paiono rifiutare l’autentica letteratura.


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