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GIUSEPPE PREZZOLINI

UN RICORDO DI CESARE ANGELINI

Prefazione a Cesare Angelini - Giuseppe Prezzolini, Carteggio 1919-1976,
a cura di Margherita Marchione e Gianni Mussini, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura,
1983, pp. VII-VIII.

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Vittorio Beonio-Brocchieri, Giuseppe Prezzolini e Angelini,
nel cortile dell’Almo Collegio Borromeo, 1957.

Fotografia di Giuseppe Buniva


Come scoprii Cesare Angelini non so; ma per me, come per un certo numero di persone dabbene, non fu soltanto il nome di un amico, o di un sacerdote, non quello di un autore, o di un’autorità letteraria, non la fama di una competenza linguistica e di una onestà erudita: fu un’apparizione in Italia di tutto questo riunito in un uomo piccolo come uno scricciolo vestito da prete, che soltanto un’antologia scritta da molti che l’hanno consultato o letto potrebbero descrivere. E fu un pastore di coscienza. Non predicava: mostrava. Quando si pubblicherà la sua corrispondenza integralmente, si avrà il contributo più sincero e acuto dei nostri tempi. La sua qualità fondamentale era la finezza, tanto era difficile intenderlo, pieno di sottintesi che potevano apparire critiche, di ammirazioni che erano sempre sorvegliate, pesate e ripesate, di audacie nascoste e sfuggenti alla presa. Per conoscere il peso delle sue parole la bilancia dell’orafo era necessaria; per conoscerne la profondità ci voleva uno scafandro; e talvolta la sua benevolenza poteva far sentire il taglio della scimitarra. Non era legato a nessuna scuola, non dipendeva da alcuna infatuazione. La sua umanità si esprimeva nella forma cristiana del regalo. Non bisognava lasciarsi scappar dalla bocca che un libro, un monile, un ritratto era bello, perché te lo regalava. Il regalare era una gioia per lui più che per il donato che si sentiva debitore senza volerlo. E si lasciava derubare, ma senza rancore e senza far la figura di stupido, perché faceva capire che lo sapeva benissimo. Per molti era un oracolo al quale si poteva ricorrere nei momenti più difficili della vita per ricevere un parere spassionato, accompagnato da carità e compassione. Si sarebbe detto che conosceva il peccato e perdonava la debolezza umana.
Don Cesare Angelini non morì come avrebbe voluto: d’insolazione mentre coglieva rose in un giardino. È morto in un letto dove ha passato i suoi ultimi giorni avendo appena la forza di mandarci un estremo saluto. Il grosso pubblico non sa cosa fosse per molti di noi, cui, tutti insieme, dette il nome di Il tempo della Voce, quando io ne raccolsi le più belle lettere che a lui potevo dedicare. Con lui scomparve uno dei rari cattolici italiani che abbiano saputo unire la fede nella Chiesa che avrebbe voluto salvata dai contestatori, alla fedeltà nello stile, che avrebbe voluto pulire dai sovvertitori.
Visse molti anni nella sua vecchia Pavia, delle cui strade curve e quiete era innamorato, e sebbene abbia dedicato pagine ad Assisi ed alla Terra Santa mai nessuna fu colorita come quella sulla sua città natale. Lo si immagina allontanarsi per cogliere uno spicchio di sole di Cesena col quale incoronava il suo primo grande amore Renato Serra, alle cui sollecitazioni doveva l’amore delle lettere e il culto della poesia. Dopo di lui il suo appassionato amore fu per il Manzoni di cui illuminò con note I Promessi Sposi.
La sua vita fu pura come la sua scrittura. Commosse perfino Marinetti, che quando morì volle che sua figlia Luce gli leggesse certe pagine scritte dal prete scrittore sopra l’angelo custode.
Era mingherlino, e doveva il suo aspetto rispettabile soprattutto ai capelli bianchi diritti come una corona, e agli occhi scintillanti di una bonaria malizia, sicché appariva più grande del naturale. Era molto soddisfatto di aver vissuto accanto a Papini, a Cecchi, a Serra. Si circondava quando poteva di cose belle, e con prodigalità francescana, le regalava a chiunque ammettesse in casa. Visse povero, onesto, semplice. Fu una delle glorie della Voce, riunì il rispetto alla tradizione con la curiosità delle letterature moderne. Non siamo rimasti in molti a potere ripetere per lui i versi di Baudelaire che citava: «Ben presto affonderemo nelle ghiacciate tenebre — addio, o luce viva di troppa corta estate».




GIUSEPPE PREZZOLINI

UNA LETTERA

al sindaco di Torre d’Isola Vittorio Ferrari
per la dedicazione della scuola
del paese a Cesare Angelini, pubbicata
in Cesare Angelini - Giuseppe Prezzolini,
Carteggio 1919-1976,
a cura di Margherita Marchione e Gianni Mussini, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura,
1983, pp. VIII-IX.

Pregiatiatissimo Signore, ma soprattutto pregiatissimo amico e ammiratore di don Cesare Angelini,
Lei m’invita a festa chiedendomi di scrivere due paroline su Cesare Angelini! Che gioia sapere che nel suo paese è ancora ricordato. Ma ci vorrebbero duemila parole, e del genio; e io non posso trasgredir i limiti, e non so dove il genio sia, perché me ne presti un boccone che dia un’idea di un uomo come Cesare Angelini. Le parole che ci vorrebbero si affacciano dalla mia bocca, in un turbine di immagini, di ricordi, di riflessioni e di riconoscenza. Che uomo! Che prete! Che dotto! Che letterato! Che ospite! Che narratore! Che osservator di costumi e giudice di caratteri. Avere avuto per non so quanti anni quella grazia di Dio, che mi farebbe credere che un Dio esista: tanta era la sua dottrina, la sua umanità, il suo spirito, la sua finezza e la sua moderazione nell’adoperar tutti quei Doni. Gli ho voluto molto bene, l’ho molto ammirato, ma dovevo star lontano da lui perché, qualunque cosa di bello trovassi nel suo studio, me lo voleva regalare; e dovetti un giorno minacciarlo di non tornar più da lui se non cambiava sistema. Era ricchissimo di potenza letteraria, di gusto, di sensibilità; ma avrebbe donato a tutti quel che valeva, senza accorgersi del cattivo uso che i mediocri ne avrebbero fatto. Ci sono giornate e serate, ore sotto il portico e confidenze nel suo rifugio che mi tornano in mente. Gli voglio più bene oggi di quando lo conoscevo di persona: la sua figura s’ingrandisce. Una rarità in un mondo come l’Italia d’oggi! Non posso dir di più. Son lieto che anche altri, lontani da me, abbian riconosciuto in lui la stoffa di un maestro, d’un santo (malizioso), d’un italiano (non retorico). Vi ringrazio dell’invito e mi scuso di non aver più spazio e forza (alla mia età di circa 100 anni) per dir con maggior precisione il mio ricordo di un grande amico.


Suo aff.
Giuseppe Prezzolini




DUE NOTE DI GIUSEPPE PREZZOLINI

dalla sua rubrica
Italia sott'occhio – America col cannocchiale
“il Borghese”, 16 novembre 1967, n. 46, p. 500.

3 ottobre. Pavia. Si entra nella casa dove don Cesare Angelini abita all’ombra di un torrone medioevale con altre quarant’una famiglie, per uno scalone nobile che s’assottiglia dopo il primo piano in borghese. Ê un appartamento assai modesto, ma dove c’è luce e spazio sufficiente per un pretino, che pare uno scricciolo, e deve il suo aspetto rispettabile soprattutto ai capelli bianchi e dritti come una corona sulla testa ed agli occhi scintillanti di una bonaria malizia. Le pareti sono tappezzate di libri. Non so come glie ne sian rimasti tanti, vista la sua abitudine francescana di regalarli appena un visitatore manifesta simpatia per un’edizione: «Prendila con te, caro; te la dono». Ê tanto lieto quando può dirlo. Dopo esserci cascato una volta, io non ho più ripetuto l’errore di elogiare un libro o un fascicolo di rivista; e questa volta non sono tornato via carico di roba stampata, ma soltanto più ricco.

4 ottobre. Ripensavo a tante cose che don Cesare mi disse ieri con la sua voce dolce e ferma: ricordi e giudizi e riflessioni e citazioni e progetti, che sarebbe difficile ripescare ma mi lasciaron, come sempre, quando parlo con lui, meno amaro e più racconsolato col mondo. La sua difesa di don Abbondio1 è fondata sul fatto che il povero prete era «nato così», cioè pauroso e non poteva far altrimenti da quello che fece. In un certo senso Don Angelini ha ragione. Tutte le volte che si esamina dal di fuori un nostro atto sul suo nascere e svilupparsi siam colpiti dalle inevitabilità di esso e ci pare che se ci ritrovassimo nelle condizioni un’altra volta torneremmo a far quello che abbiamo fatto prima. Dal punto di vista poi cristiano si è portati a perdonare sempre il colpevole perché la condizione dell’uomo carico del peccato originale fa che, senza l’aiuto di Dio, non possa altro che far male. Sicché tanto per l’osservatore scientifico, quanto per l’osservatore cristiano, la colpa di Don Abbondio non esiste: «Signor Iddio, tu mi facesti nascere pauroso e che ci posso far io se tu non mi hai soccorso?» Che cosa resta alla giustizia umana per giustificare la propria esistenza? Ben poco. Un criterio completamente privo di giustizia, ossia l’utilità sociale. Sotto tutte le teorie della punizione, della redenzione attraverso la sofferenza della pena, della vendetta in nome di chi ha sofferto, sta incrollabile soltanto il bisogno sociale di «far i propri affari» tranquillamente, senza esser disturbati da coloro che violano una legge per evitare agli uomini la lotta personale continua. La nostra società, la nostra bella società, la nostra alta, nobile, pulita società ha bisogno di esser protetta contro i disturbatori. E lo fa con la minaccia delle pene e con più o meno prolungate limitazioni della libertà dei colpevoli. La morale o la pietà non c’entrano.

1. Era appena apparso nel “Corriere della Sera” (23 settembre 1967) l’articolo Il collega don Abbondio, che Angelini avrebbe poi riprodotto nella seconda edizione dei suoi Capitoli sul Manzoni vecchi e nuovi.