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PAOLO DE BENEDETTI

PASSEGGIATE IN BORROMEO

Intervento di Paolo De Benedetti
al Convegno di Albuzzano,
“Cesare Angelini, sacerdote e critico”,
30 settembre 1995,
pubblicato in Cesare Angelini - Paolo De Benedetti,
Quasi evangelista quasi talmudista.
Lettere (1949-1975)
,
a cura di Nicoletta Leone e Fabio Maggi,
Brescia, Morcelliana, 2020, pp. 293-297.

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Angelini nel giardino dell’Almo Collegio Borromeo

 Fotografia di Giannessi 


Così Maria Corti, nel suo Dialogo in pubblico [Rizzoli, 1995, ndr], ricorda il suo primo incontro con Angelini in Borromeo: «Mi presentai in Collegio Borromeo, di cui monsignor Angelini era rettore. Vidi avanzare sotto il solenne, incantevole porticato doppio cinquecentesco di Pellegrino Tibaldi una minuscola silhouette nera con una grande chioma bianca elegantemente piegata all’indietro. Alcuni borromaici nel cortile gli sorridevano con compiacimento. Non trovavo le parole giuste per spiegargli il motivo della mia visita, ma non ce ne fu bisogno. Mi accolse nel suo raffinatissimo studio e capii d’un tratto che lo avrei messo fra i miei amici. Notai che sapeva dare alle parole una vita personale, tra l’ilare e l’ironico. Non so se Angelini, come i veri uomini di fantasia, credesse a tutto quello che ti raccontava, ma ti raccontava cose che non avresti più dimenticato».
Si potrebbe parlare a lungo dell’immagine di Angelini che, come la sua opera letteraria, potrebbe essere fraintesa. L’accenno di Montanelli all’«abate francese del Settecento» è un accenno molto sbagliato. Angelini non era un abate francese del Settecento, ma, piuttosto, si divertiva a far credere di essere diverso da quello che era. Maria Corti fu impressionata dalla sua chioma; a me hanno fatto più impressione gli occhi di gatto, infatti dietro gli occhi di gatto ci sono grandi misteri.
Quando lavoravo a Milano e gli telefonavo in Borromeo, lui mi diceva: «Venga a prendere un po’ di brodo da me». Si pranzava in una grande sala con un tavolo grandissimo; ricordo (anche questa deve essere una favola) che il pranzo finiva sempre con una torta di nome «Maria Antonietta», la cui formula era segreta come quella della Coca Cola; in realtà, poi era la torta Vigoni (questa era la mia impressione). Poi si andava nella sua camera da letto, dove erano sempre visibili i ritratti del Manzoni, del Serra e, su un leggio, una prima edizione dei Promessi Sposi, illustrata dal Gonin, e Angelini diceva: «Facciamo un fiero caffè» (dal cassetto di un mobile usciva la caffettiera, in un altro cassetto c’erano i libri che lui donava). Dopo il caffè, passando da una porticina, si usciva nel parco, dove si passeggiava e si parlava: Serra prima di tutti, Prezzolini, Papini, Gozzano (sovente mi diceva: «Studi Gozzano»), Foscolo, del quale una volta mi portò a vedere la casa («la casa del Foscolo»). Si parlava dei suoi tre periodi pre-borromaici: infanzia, Seminario di Pavia, Cesena, e poi ritorno.
Si parlava anche di amici quotidiani, con i quali ci si incontrava in Collegio (e, oggi, è qui presente un’amica molto cara). Tra questi, c’era anche un medico di Torino che era stato suo compagno d’armi. Si chiamava dottor Gazzano, e Angelini, che aveva certe magnificenze risorgimentali, pur non essendo un signore, qualche volta ci portava a Torino in taxi. Del resto so che lui andava ad Assisi in taxi, e, negli anni ’30, sull’automobile dell’amico Vittorio Beonio Brocchieri, andava in piazza San Marco a Venezia per prendere un caffè. Per chi lo ha conosciuto, non è immaginabile Angelini su un treno, e meno che mai a guidare una macchina (sarebbe anacronistico).
In queste passeggiate ascoltavo i suoi discorsi, ma anche la sua voce, che, come la sua singolare scrittura, come i colori della carta su cui scriveva, sapeva di letteratura (ma non in senso negativo). E mi faceva alcune confidenze. Voglio ricordarne due.
La prima era l’intenzione del Cardinal Montini, quando era a Milano, di far tradurre il Messale in italiano ad Angelini (progetto poi svanito).
L’altra. Angelini aveva assoluta ripugnanza a lasciare degli inediti, degli abbozzi. Un giorno, a forza di fumare sigarette, ebbe una specie di avvelenamento e si convinse che stava per morire e, dunque, distrusse tutti i suoi manoscritti, tra i quali anche il testo di una conferenza sul Mascheroni. Naturalmente poi non morì e, rammaricandosi, diceva che non sapeva che cosa avrebbe dato per recuperare quei fogli, che gli erano necessari per una nuova conversazione. Il suo giusto odio per gli inediti: oggi esistono autori che scrivono più da morti che da vivi, e non è cosa sempre giusta, perché tende a deformare l’immagine che l’autore controlla.
Dopo il Borromeo, abitò in via Luigi Porta e in via Sant’Invenzio; ma bisogna dire che Angelini ricostruì sempre intorno a sé, non artificiosamente, l’atmosfera borromaica (il salotto verde, lo studio, i libri), seppure in maniera meno grandiosa.
Le sue consuetudini di amicizia non erano solo letterarie, perché gli amici non letterati nella vita di Angelini sono stati molto importanti, e hanno dato dimensioni che la pura letteratura rischia di non dare.
La sua figura è molto difficile da descrivere, e mentre certi scrittori ci guadagnano a non essere conosciuti, per Angelini è invece il caso opposto: la sua frequentazione è molto utile a calibrare la lettura di Angelini stesso. Nella sua prosa l’orecchio sente ciò che legge.
Maria Corti parla della «fabulosa letizia» delle sue parole, di un’ironia leggera, quasi dolce; è una delle caratteristiche di Angelini, che lo salvano dall’impressione superficiale di leziosità. Angelini possedeva una qualità oggi quasi perduta: voleva e si concedeva il tempo di assaporare le cose, la poesia.
E infine aggiungerei una qualità, l’humilitas. Nello stemma borromaico c’è la scritta humilitas, però con una corona sopra. E io mi sono sempre domandato se a chi ha una corona si raccomanda l’humilitas, o se a chi ha l’humilitas viene voglia di mettersi una corona. E direi che le due cose in Angelini si intrecciavano, cioè la sua humilitas di uomo religioso e di amico attento e premuroso, portava consapevolmente la “corona” di chi maneggia le parole (e Angelini, maneggiando le parole, sapeva che esse appartengono alla stessa famiglia della Parola, del Logos). Questo dobbiamo conservare, perché Angelini non sta solamente nei libri.


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Autografo di Paolo De Benedetti ad Angelini, in Paolo De Benedetti, Il Nuovo Testamento e gli scritti rabbinici, estratto da Introduzione al Nuovo Testamento, Morcelliana, Brescia, 1961: «a Cesare Angelini quasi | evangelista, da Paolo De | Benedetti quasi talmudista».

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