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IL DOMICILIO MATERIALE E SPIRITUALE
DI TORRE D’ISOLA



La «bella stradina» di Torre d’Isola.

Fotografia di Luisa Bianchi

Da Luisa Bianchi-Cesare Angelini, Colloqui fotografici,
Pavia, Edizioni ViGiEffe, 1993, p. 39.


NOTIZIA

A Torre d’Isola (Pavia) è parroco, dal 1904 fino alla scomparsa nel 1938, don Giuseppe Angelini, fratello di Angelini. Insieme a don Giuseppe, da Albuzzano, si trasferisce parte della famiglia Angelini: i genitori, Giovanni Battista e Maria Maddalena Bozzini (o Bosini), le sorelle, Maria e Gina, e, in seguito, la nipote Margherita Angelini (maestra per molti anni alle scuole elementari del paese). Angelini, dal 1919, terminato il primo conflitto mondiale e congedato dai compiti militari, insegna nel Seminario Vescovile di Pavia, dimorando però in quel di Torre d’Isola coaudiutore del fratello. Nel 1938, alla morte di don Giuseppe, diviene economo spirituale del paesino del Pavese («1938-1939 Cesare Angelini Ec. Sp.» si leggeva nella lapide posta nella chiesetta di Torre d’Isola, lapide da lui voluta e preparata a ricordo della storia della Parrocchia e dei suoi sacerdoti. Poi sostituita, negli anni 2000, dal Comune di Torre d’Isola, uniformando tutti i titoli a “don”, perdendo così una preziosa testimonianza). Nel 1939, diviene rettore dell’Almo Collegio Borromeo: si trasferisce in quel di Pavia, pur restando in Torre d’Isola le sorelle e la nipote Margherita, fino alla fine degli anni ’50. Spesso scrive alla nipote. «Sto bene. Verso venerdì o sabato farò una scappata a Torre d’Isola; se non mi fermerò addirittura a mangiare le rane». «Volevo venire domani a Torre d’Isola, a trovarvi, ma ho impegni di Collegio. Verrò magari mercoledì o giovedì...»
Come aveva (pre)detto, in una lettera del gennaio 1957, alla nipote, «[...] Torre d’Isola, dove, alla fine, sono i nostri veri interessi, e dove troveremo — quando sarà tempo — il nostro definitivo riposo», Angelini nel suo testamento, datato 10 settembre 1975, chiede di essere sepolto nel cimitero di Torre d’Isola «vicino ai miei Genitori e alle Sorelle Maria e Gina e al fratello d. Giuseppe, aiutati dalle preghiere di gente conosciuta e buona».




Di Angelini, la sorella Maria, la madre Maria Maddalena Bozzini (o Bosini), la sorella Gina. Torre d’Isola, 1910.



CESARE ANGELINI

COME NACQUE TORRE D’ISOLA

Dal giornale cattolico “Il Ticino” del 26 luglio 1969

***


La prima notizia di Torre d’Isola, che ce ne racconta la nascita e spiega il nome «fluviale», risale al Mille o giù di lì; quando la Lombardia era sotto il dominio di Re Ottone e della Regina Adelaide, che risiedevano in Pavia.
Pare una favola tant’è bella. Dice che ogni notte, partendo dal ponte, solcava le acque del Ticino una barchetta guidata da un lume e, dopo alcuni chilometri, approdava a una piccola isola poco lontana dalla sponda. Vi calava una donna che si raccoglieva nel bosco, rimanendovi fin verso il mattino quando tutto spariva, il lume e la barca.
L’apparizione notata da alcuni pescatori, sollevò rumore nei dintorni: chi la diceva un fantasma, chi un’anima del purgatorio che vi tornava a espiare qualche peccato. Ne fu avvertita l’autorità del Sacro Palazzo che la fece circondare di guardie; e, per alcune notti, non si vide più nulla, né la barca né il lume né l’essere misterioso che li muoveva.
Ma un giorno, mentre la regina Adelaide si recava a pregare alla chiesa di S. Salvatore fuori porta Marica (oggi si direbbe porta Cavour) le corse incontro una donna vestita a lutto, e baciondole la mano le disse: «Pietosa Regina, lascia che io ritorni all’isola ora cinta dai tuoi soldati, dove ho raccolto le ossa del mio figliuolo morto combattendo contro i Saraceni. Le ebbi da suoi amici pietosi, e le riposi in quell’isola deserta. Lascia dunque, che io torni ogni notte a pregare vicino a quelle sante ossa.»
La regina si commosse a quella preghiera; e non solo le concesse di andare all’isola quando voleva; ma glie la diede in dono o, come si dice, in feudo. La buona donna vi fece erigere una tomba decorosa e una torre per difenderla, dentro la quale fece sua dimora.
Da allora, il luogo fu chiamato la Torre dell’isola, e mantenne quel nome anche quando, ritirandosi le acque, l’isola fu congiunta alla riva. Una capanna dopo l’altra, vi crebbe un piccolo paese, abitato da pescatori, che prestavano aiuto al vicino porto di Santa Sofia, già esistente fin dai tempi di Carlo Magno che, impadronitosi di Pavia, proprio lì aveva fatto una sua casa di campagna.
La nostra Torre d’Isola nacque, dunque, da un atto di pietà regale, che parve conservarle nei secoli quello spirito di religiosa finezza che si riscontra ancora al dì d’oggi nei costumi dei suoi abitanti.
Naturalmente, attorno al capoluogo sorsero via via altre piccole comunità: Boschetto, Campagna, Cà de’ Vecchi, Casottole, San Varese, Sette filagni, che fecero il Comune.
Varia e piuttosto complicata si fece poi la sua storia nei secoli seguenti, passando di feudo in feudo, d’Ordine religioso ad altro Ordine religioso. Tanto per spiegarmi: se nel 1230 ne ebbero l’investitura i monaci di S. Pietro in Ciel d’oro, verso il 1300 passò al Monastero di S. Salvatore, e, più tardi, all’Abbazia del Santo Sepolcro, oggi S. Lanfranco.
Le cose si fanno più chiare nel 1500, quando nella sua storia compare la nobile famiglia Botta che cominciò a signoreggiarla per l’investitura livellaria avuta dall’Abbazia di S. Lanfranco, che ne era la principale proprietaria. Fu allora che il nobile Bergonzio, maggiorasco della famiglia e ministro delle entrate alla Corte Ducale di Milano, per la prosperità del latifondo, ottenne dal Duca Ludovico Sforza di poter derivare acqua dal Naviglio grande per mezzo di un canale; e fu quella roggia che ancora oggi, in Torre d’Isola e dintorni, si chiama la Bergonza, dote e ricchezza di queste fertili campagne.
Ma queste cose, e altre, dette assai meglio, si trovano nella Storia di Torre d’Isola, scritta dieci anni fa dal nostro parroco don Pietro Mariani [Pietro Mariani, Torre d’Isola. Storia e cronaca (con una leggenda), Fusi, Pavia, 1958, ndr]; che anche lui naturalmente le derivò da altri storici più storici di lui, se è possibile esserlo.
Il credito e lo splendore della famiglia Botta crebbe ancor più quando nel 1635 il marchese Alessandro sposò la marchesina Maddalena Adorno di Genova, di larghissimo censo, dando origine al casato Botta Adorno. E proprio a loro risale la costruzione della villa che ancora oggi conserva il suo aspetto di eleganza settecentesca; ricca di un grande parco-giardino degradante verso il fiume, dove più a lungo si conserva la giovinezza della natura. È fama che, all’ombra dei nobili pini e di succolenti ippocastani, per tutto il Settecento vi si coltivassero più di mille svariatissime camelie e più di cento qualità di rose e fiori.

***


Villa Botta Adorno

Ma il fatto che ancora oggi, a ricordarlo, getta sulla villa una luce spirituale, lo racconta il nostro storico pavese Defendente Sacchi. Dice che verso il 1825-30 la marchesa Chiara Botta Adorno Schiaruzzi, alla stagione della villeggiatura vi teneva un «salotto» scientifico-letterario, al quale convenivano, a piedi, da Pavia, i più illustri professori dell’Università, sedotti dalla quiete del luogo e dalle geniale conversazioni guidate dalla donna gentile. I più assidui frequentatori erano l’abbate Tommaso Bianchi, che poi morì martire della libertà italiana, e il professore Pietro Configliacchi, discepolo e successore di Alessandro Volta nella cattedra di Fisica. Questa Torre d’Isola inalzata al grado di salotto letterario, mi commuove sempre. Dai Botta Adorno, la proprietà passo ai marchesi Cusani Visconti; poi al Litta Modignani; e, dal 1910 ai conti Morelli di Popolo.

***

Ma il luogo che raccoglie la storia delle anime del paese e le unisce tutte in comune sentimento di fede, è naturalmente la bella chiesina eretta nel 1706 su un oratorio preesistente fin dal 1500. Nel 1735, per una convenzione fatta tra il marchese Giacomo Botta e il Vicario dei Frati di Trivolzio, fu dichiarata sussidiaria di quella maggior chiesa, che ogni domenica e festa comandata vi mandava un padre domenicano a dire la Messa e a fare la dottrina. Fin che, eretta in parrocchia nel 1760 sotto il titolo Madonna della Neve, rimase sotto il patronato della famiglia Botta; patronato che durò fino al 1958, quando «pro bono pacis» dell’una e dell’altra parte, cessò.
Su una parete della bella chiesetta, una lapide ricorda i nomi dei parroci che si succedettero nella cura delle anime. Ve la collocò, nel 1939, uno di loro che per molti anni vi fu curato volontario e, per un anno, parroco; succedendo a un suo carissimo fratello. Dice che quello fu l’anno nel quale, in quella comunione d’anime, d’alberi e d’acque, si sentì veramente sacerdote.




CESARE ANGELINI

TORRE D’ISOLA.
COM’ERA IL PAESE E COM’È!

Dal giornale cattolico “Il Ticino” del 31 luglio 1971

***


Penso che siamo rimasti in pochi a ricordare com’era Torre D’Isola al principio del secolo, cioè settanta anni fa. Forse se lo ricorda solo qualche cavaliere di Vittorio Veneto che ha fatto la prima guerra mondiale.
Per il momento, sono qui io a ricordare com’era Torre D’Isola nel 1904, anno dell’entrata in parrocchia d’un Parroco del quale io sono stato coadiutore per quasi trent’anni, e poi gli sono succeduto: mio fratello don Giuseppe.
Com’era allora dunque il paese? e intendo dire il capoluogo, che dà il nome al Comune. Ecco: era tutto raccolto dentro il cortile del Conte. Dico tutto: il fittabile e i dipendenti, il Municipio comunale, le scuole elementari, l’ufficio postale, la casa dei due maestri, la casa del medico, quella del sacrista e quella del falegname. Sicché la sera, quando il portinaio chiudeva il cancello e il portone, il capoluogo era chiuso dentro.

Ne restavano fuori solo la chiesa e la casa del parroco, che allora non s’apriva sulla strada ma all’interno d’un cortiletto addossato al muro di cinta del grande cortile.
Il paese era segnato dalla presenza di due grossi platani che formavano un po’ di piazza e, alla loro ombra, la domenica il fruttivendolo postava il suo banchetto di generi diversi. Botteghe, nessuna: nemmeno un’osteria per bagnarvi il becco. Il prestinaio veniva ogni giorno da fuori, da Marcignago, il paese più vicino. Insomma, un paesino all’antica, alla buona: tutti uniti in un comune sentimento di concordia e di fede. Un paese dove pareva che fossero tutti parenti, pronti a prestarsi aiuto scambievolmente. Mi pare anche di ricordare che allora, per vivere, ci si accontentava di più poco, e usava dire che quando c’era la salute, si era dei signori. Ho cercato di descrivere il paese com’era. Com’è adesso, l’abbiamo sotto gli occhi.

***


La chiesa di Torre d’Isola prima del 1940

Più sopra ho nominato la chiesa: una chiesetta piccola ma adatta alla popolazione che, tra capoluogo e frazioni, toccava le settecento anime. Costruita nel 1706 come oratorio privato del Conte, che allora era marchese (il marchese Botta-Adorno), diventò parrocchia nel 1783. Una lapide, murata all’interno, ricorda in poche righe la sua storia e i nomi dei suoi primi parroci.
Particolare curioso: il campanile (un torrazzo quadrato) non aveva fondamenta: sorgeva sul tetto della chiesa, e portava due sole campanelle che la Domenica facevano del loro meglio per farsi sentire, cioè per annunciare l’ora delle sacre funzioni ai cascinali lontani: Casottole, Ca de’ Vecchi, Boschetti, Cascina Campagna, Brughiere, Santa Sofia, Massaua. E la loro voce arrivava dappertutto, perché se ne aggiungeva una terza: quella della coscienza, campana sempre sveglia e forte; sicché la chiesa si riempiva di gente alla messa bassa quanto alla grande o cantata.
Capoluogo e frazioni (dove i dipendenti erano più fissi, più stabili) erano fatti alla stessa immagine e somiglianza: popolazioni semplici, pie e, soprattutto, educate. Questa dell’educazione, era una qualità notata anche dai forestieri che ci capitavano; ed era frutto di un sentimento religioso, libero e fine, che si respirava nell’aria, più che predicato per precetto. Ne avete una prova per quello che sto per raccontare. Uno dei suoi parroci che, tra l’altro, voleva abolire le tariffe delle funzioni (ma non vi riuscì: fu denunziato al Vescovo come uno che «rovinava la piazza») un giorno ricevette dalla Curia un foglietto che lo invitava a dire, in coscienza, quanti erano in Torre d’Isola gli uomini e le donne iscritti all’Azione Cattolica. Il parroco prese il foglietto e scrisse: «A Torre d’Isola tutte le donne e tutti gli uomini sono cattolici».
Un mese dopo, riceve sempre dalla Curia un altro foglietto che lo invitava a dire, in coscienza, quanti erano in Torre d’Isola i fanciulli iscritti al Circolo cattolico. Il parroco prende il foglietto e scrive: «A Torre d’Isola tutti i fanciulli sono cattolici».
Era la pura verità; e non c’era bisogno di fondar circoli, che vuol dire inclusione di alcuni e esclusione di altri. Naturalmente io parlo di un altro tempo e di un’altra età; cioè di generazioni passate, dalle quali ho conosciuto l’attaccamento al paese, alla parrocchia, alla chiesa del loro battesimo e delle loro nozze. Care, buone creature, i cui nomi ora si ritrovano quasi tutti sulle lapidi del cimitero.
E quelle di oggi come sono? Brave, come quelle del passato. Le belle qualità dei padri sono passate, quasi come tutte le virtù della terra, sono passate nei figli e nei nipoti. Naturalmente sono cambiate certe forme esteriori, volute dai tempi nuovi. Ma la parte intima e fondamentale è ancora sana e cristiana; e Torre d’Isola è ancora la bella parrocchia d’una volta, magari con qualche cosa in meglio.
Il nuovo parroco, don Edoardo, mi ha pregato di parlargli di Torre d’Isola. Certo gliene parlerò, perché Torre d’Isola un poco mi appartiene. Non ne sono stato io coadiutore e parroco? E nel piccolo cimitero, raccolto dentro una parentesi d’alberi e acque, non riposano anche i miei morti che mi chiamano sempre?
Certo, dunque, gliene parlerò. Oggi ho voluto dirgli soltanto che egli è arrivato in una bella parrocchia: largo orizzonte, aria buona, gente semplice e fine, e soprattutto educata. Una bella parrocchia, che la sua serietà di uomo e la sua pietà di sacerdote trasformeranno in una reggia d’anime.





DA UNA CARTOLINA

Il 16 gennaio 1944, a ricordo della sua esperienza pastorale a Torre d’Isola, Angelini scrive ad amici la seguente cartolina:




TRASCRIZIONE


[Almo Collegio Borromeo, Pavia] 16 genn.[aio]

Quando, nel 1939, mi ero messo in mente di donare una voce a T.[orre] d'I.[isola] con l’erezione di un campanile nuovo, mi raccomandai a un amico di Milano, perché mi ottenesse dalla Cassa di risparmio almeno 10 mila lire. L’amico – occhi fioraliso aperti e non insonni – mi rispose che per propiziarmi la Voce di T.[orre] d'I.[isola] cominciassi dal mettere in muda sotto la gronda delle chiesetta tre allodole per mattutino, due passeri solitari per mezzogiorno, e cinque rusignoli per la notte...!
L’amico si chiamava Giuseppe d’Arimatea.

Cordialm.
vostro A



CESARE ANGELINI

UNA LETTERA A DON PIETRO MARIANI

parroco di Torre d’Isola nel 1954,
in occasione della edificazione
del nuovo campanile.


Caro Don Mariani,

non avessi altri meriti verso la nostra parrocchia (ma ne hai), avrai sempre quello, grande, di averle dato una voce, la voce vera della campane, che chiamano i fedeli a Dio, e a Dio parlano i fedeli. Campane e campanile, il simbolo della Fede di un paese: l’ultima cosa che si guarda quando si parte, la prima che si cerca quando si torna: e, raccogliendo tutte le case intorno a sé, le benedice e protegge, le più alte e le più umili, le più vicine e le più lontane.
Cinque campane: un concerto a mezz’aria, in alto; una delle più meravigliose cose della nostra Liturgia. E a qualcuno che le ascoltava suonare in questi giorni, è parso di sentirci fusa dentro anche l’antica voce delle due campanelle settecentesche che per due secoli interi hanno segnate e accompagnate le cronache di Torre d’Isola, e le nozze e le nascite e le morti.
Allora erano tempi più leggiadri — allora potevano bastare anche due sole; a cui s’intonava quella terza campana che era la viva coscienza cristiana, e le faceva più ampie e sonore.
Ora che è il tempo del risveglio, è giusto che siano cinque, come cinque sono i precetti della Chiesa che esse annunziano, e due volte cinque sono i Comandamenti di Dio che esse ricordano alla nostra fiacca memoria. Poiché queste sono le meravigliose cose che le campane hanno sempre da dire.
Segnino, dunque, davvero, un tempo di risveglio anche nella nostra parrocchia: facciano fiorire l’aria coi loro suoni d’argento, e facciano fiorire i cuori nella Fede e nell’amore, nella bontà e nella concordia.
Ne esulteranno anche le ossa dei nostri poveri morti che riposano nel cimitero vicino; e in un rinnovato senso di religione potranno dire contenti: I nostri figli e nipoti custodiscano la eredità di Fede e di vita cristiana che abbiamo loro lasciata; la sola, forse, ma la più grande e la sola necessaria.
Auguri, auguri!

Don Cesare


***


La chiesa di Torre d’Isola oggi, con il “nuovo” campanile



CON ANGELO FERRARI,
MATTINIERI SULLA STRADA
DI TORRE D’ISOLA...



Angelo Ferrari (Pavia 1874 - Pavia 1971)


«Al caro amico Angelo Ferrari / queste paginette nate e cresciute / presso le sue vivaci conversazioni / sulla strada di Torre d’Isola, sempre / in vista del nostro bel fiume / Il suo Cesare Angelini / Pavia genn. 1924». Nel darne una collocazione in spazi, in luoghi, Cesare Angelini, con questa dedica, fa omaggio di una copia della sua prima opera, Il lettore provveduto (Il Convegno, 1923), all’amico carissimo e poeta in lingua e in dialetto Angelo Ferrari.
Nel gennaio 1998, Baldassare Ferrari, figlio di Angelo Ferrari, ricorda: «Mio padre, di buonora, da Pavia, dove abitava, si recava in bicicletta a Torre d’Isola e, con Angelini, a piedi, tornavano in città, al Morandotti un caffé, e poi l’uno in Seminario a insegnare, l’altro alla Congregazione di Carità (via Orfanotrofio), dove mio padre era ragioniere».
Anni ’20: le pagine di Angelini nel raccogliersi per la prima volta in volume, muovono i loro passi sulla stradina di Torre d’Isola e, per naturale estensione del titolo del libro, si alimentano nel confrontarsi di due lettori singolarmente provveduti.
Sempre nel 1924, Angelo (’Ngiulin) Ferrari pubblica presso il Circolo di Coltura Alessandro Manzoni di Pavia il suo terzo libro in versi, Un bris ad ciel, curato e con prefazione (Parlata d’introduzione) di Angelini. Nelle parole di Angelini si incontrano i luoghi delle comuni passeggiate: «La penombra de’ [...] boschi che risalgono il bel fiume pescoso ricco d’acque chiare e di vibrazioni d’argento, sfumando contro il cielo perlaceo di Torre d’Isola — l’isola dei mughetti — o, più lontano, di Zelata rossa». Nei versi del Ferrari sono spesso ricorrenti le albe, le prime ore del giorno, quando «gh’è in gir al Spirtusant», quando «la belesa la nassa cun l’Aurora», quando «dopo una bèla not ad sogn rident / rumanza inverosimil no finì / cla s’interompa col sbagagiament / a l’alba nivulà in sal fa dal dì / mi pensi cume un bataglion d’imagin / a vul ch’i va me ’l vent in sl’aria grisa», quando l’angelo di nome si muove verso l’angelo di cognome, e insieme vanno in cerca di quei «bataglion d’imagin», leggendoli nei campi, nelle acque, nei cieli, per poi scambiarseli, ritornarseli, e (de)scriverli. Torre d’Isola vista come «isola dei mughetti», pare, e forse è, un loro riccorrente (e singolare) vederla e chiamarla.
Momenti che restano indelebili nella memoria del sacerdote pavese che, nel 1968, pubblicando Notizia di Renato Serra (Rebellato), a circoscrivere un quarantennio di sua partecipazione alla letteratura, e quasi avendo sotto gli occhi quella lontana dedica del 1924, nel donare una copia al Ferrari scrive: «Caro Ferrari, caro e grande / Amico, accolga questa / Notizia di Renato Serra; un / nome che facevamo tanto / spesso e volentieri, quaranta e / più anni fa, nelle nostre / belle passeggiate sulla bella strada / di Pavia - Torre d’Isola, e viceversa. / Cordialmente suo / Angelini / Pavia, 9 dic. 68».
La notizia, le notizie letterarie sono (anche) nate, e temporalmente ritornano, dal recapito di Torre d’Isola, si muovono per quella strada, sulla quale il filo della memoria le ripesca, e il Ticino le rinnova. La letteratura di Angelini, la sua poesia, è più vera, più intimamente vera, se incontrata per quei promontori, dove è la sua linfa vitale, il suo domicilio.

f.m.




Testo estratto da:

CESARE ANGELINI

CARTA, PENNA E CALAMAIO

Milano, Garzanti, 1944, p. XI.


Così dunque io scrivo, con la penna che scivola via come un olio. Fin che, colmato il foglio, l’asciugo con la sabbiolina dorata cavata dal greto del fiume che mi gira dietro casa, nei giorni di magra, che vi scendo coi fanciulli del luogo.




Il fiume Ticino presso Torre d’Isola.

Fotografia di G. Gallotti



L’ORATORIO DEL BOSCHETTO...



Torre d’Isola. Oratorio del Boschetto, con il suo gelso secolare


Da un ricordo di don Piero Angelini,
nipote di Angelini, del 21 giugno 1977:

«Nel 1950 esce Il Regno dei Cieli [Cesare Angelini, Il Regno dei Cieli, Garzanti, ndr]. (...) Qualche anziano parrocchiano di Torre d’Isola ricorda ancora (quanti anni fa? forse 50!) che don Cesare Angelini, allora coadiutore e curato domenicale di suo fratello don Giuseppe, questi Vangeli, pressa poco, li diceva nell’Oratorio del Boschetto a Messa prima, e nella chiesetta di Torre d’Isola a Messa grande. E della gente veniva anche dal di fuori parrocchia per essere incantati dalle parole e dalla voce armoniosa di Cesare Angelini».




IL FRATELLO DON GIUSEPPE,
PARROCO DI TORRE D’ISOLA



Don Giuseppe Angelini (Inverno 1867 - Torre d’Isola 1938) parroco di Torre d’Isola dal 1904 al 1938.


Da un ricordo di don Piero Angelini,
nipote di Angelini, del 22 settembre 1984:

«Pianista meraviglioso, amava tutti i grandi musicisti; ma Verdi era la sua passione. La sua musica la suonava a perfezione su un pianoforte che teneva in sala. Cantore intonatissimo, tra il tenore 2° e il baritono. Organista perfetto; quel Lingiardi che è nella chiesa di Torre d’Isola, a seconda delle occasioni, rombava o gemeva sotto le sue dita. A Messa grande, mentre don Cesare celebrava, lui sull’organo suonava e cantava; e la chiesina era tutta un’armonia, pareva il paradiso».




IN FAMIGLIA...



Con le sorelle Maria e Gina, e la nipote Margherita. Torre d’Isola, 1947.

Fotografia di Luisa Bianchi



AL PICCOLO CIMITERO IERI...


   

Cimitero di Torre d’Isola. La tomba che custodì le spoglia di Angelini (Albuzzano 1886 - Pavia 1976) e del fratello Sacerdote Giuseppe (Inverno 1867 - Torre d’Isola 1938), parroco di Torre d’Isola dal 1904 al 1938. La tomba è rimasta fino al 1992.

Fotografia di P. Giacherio


TRASCRIZIONE EPIGRAFI

DON
GIUSEPPE ANGELINI
PER 35 ANNI
PARROCO DI TORRE D’ISOLA
RIPOSA COI SUOI PARROCCHIANI
REQUIEM

***

SAC.
CESARE ANGELINI
NATO
AD ALBUZZANO
2 8 1886
MORTO
A PAVIA
27 9 1976
PREGATE
PER LA SUA ANIMA




...AL PICCOLO CIMITERO OGGI



Cimitero di Torre d’Isola. L’attuale tomba della famiglia Angelini, datata 1992, ha poi riunito le spoglia di Angelini (Albuzzano 1886 - Pavia 1976), dei genitori Giovanni Battista (Inverno 1836 - Torre d’Isola 1908) e Maria Maddalena Bozzini, o Bosini, (Gerenzago 1843 - Torre d’Isola 1917), del fratello Sacerdote Giuseppe (Inverno 1867 - Torre d’Isola 1938), parroco di Torre d’Isola dal 1904 al 1938, delle sorelle Gina (Albuzzano 1879 - Torre d’Isola 1949) e Maria (Inverno 1865 - Torre d’Isola 1952) e della nipote Margherita (Albuzzano 1906 - Pavia 1995), figlia del fratello Carlo, la quale dal 1961 al 1976 ha condiviso l’abitazione di Pavia con Angelini.

Il fratello Carlo (Inverno 1876 - Villareggio 1962) è sepolto nel cimitero di Albuzzano, con la moglie Maria Cattaneo, e parte dei figli. Il fratello “non conosciuto” Domenico (Inverno 1871-1872) è sepolto nel cimitero di Inverno, dove nel 1863 i genitori di Angelini si erano sposati, trasferendosi poi ad Albuzzano, ed infine a Torre d’Isola.


TRASCRIZIONE EPIGRAFI

GIOVANNI [BATTISTA] ANGELINI 1836 1908

[MARIA] MADDALENA [BOZZINI] ANGELINI 1843 1917

GINA ANGELINI 1879 1949

MARIA ANGELINI 1865 1952

MARGHERITA ANGELINI 1906 1995

***

DON GIUSEPPE ANGELINI
PER 35 ANNI PARROCO A
TORRE D’ISOLA
RIPOSA COI SUOI PARROCCHIANI

SAC. CESARE ANGELINI
ALBUZZANO 1886
PAVIA 1976
PREGATE PER LA SUA ANIMA



*****

DA UN QUADERNO AUTOGRAFO DI ANGELINI

11 gennaio [1957]

Due cose voglio chiedere al Signore per quando sarò morto, per quando sarò chiuso nella mia ultima casa (che, per essere pronunciata bene, ha bisogno di un’altra s).
La prima, avere lì accanto, un rivoletto d’acqua (scorre l’acqua sotterranea, saggia, tra le case dei morti) dove poter allungare la mano, ogni tanto, e rinfrescarmela e bagnarmi un poco gli occhi.
La seconda, avere un lumicino al quale poter leggere una volta al giorno la pagina di Matteo (il cui Vangelo sarà il mio guanciale) aperta dove si parla della resurrezione dei morti. Per essere pronto alla chiamata della tromba finale.
Canet enim tuba... Ci credo fortemente. Ci credo.



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